Fa freddo, molto freddo. Il vento ulula così forte da divorare ogni altro rumore. La barca sfreccia agile tra le onde, si piega su un fianco, oscilla, torna dritta, si piega di nuovo, sembra una danza inarrestabile. Non c’è nessuno intorno. Nessun Imoca all’orizzonte, nessuno con cui scambiare due parole, con cui condividere un pensiero, nessuno a cui chiedere un consiglio, a cui stringere la mano, una pacca sulla spalla. Nessuno. Nessuno in carne ed ossa almeno. E sarà così per tutte le oltre 24 miglia del percorso. Questa è la Vendee Globe. Questa è la regata più estrema del mondo.
Cos’è la Vendee Globe?
Ci hanno provato in tanti a descriverla con appellativi affascinanti e suggestivi: l’Everest dei mari, la regata più pazza del mondo, la regina delle regate oceaniche. Quello che è certo è che nel mondo ci sono più persone ad aver scalato l’Everest o ad essere andate nello spazio, di quante abbiano mai partecipato a una Vendee Globe. E questo la dice lunga.
Cos’è la Vendee Globe? È una sfida estrema, una sfida con la natura, con se stessi, una sfida sportiva e una sfida umana. Cosa la rende così estrema? Si corre in solitaria, senza soste, senza assistenza. Per circa tre mesi si è completamente da soli, in mezzo all’oceano, al freddo, alle onde e al vento che non smette mai di soffiare. Non ci si può fermare né in caso di avaria, né in caso di malattia, pena l’eliminazione. Un team di terra composto da tecnici e progettisti fornisce supporto ai concorrenti in caso di guasti, avarie e malfunzionamenti della barca e della strumentazione di bordo, ma gli interventi, le riparazioni, tutto deve essere eseguito da chi è in barca, mentre si naviga, a velocità pazzesche che sfiorano i 30 nodi, tentando di evitare gli iceberg e le tempeste.
I concorrenti hanno un solo pit stop a disposizione: dopo la partenza possono rientrare in porto, ma hanno massimo dieci giorni dalla partenza ufficiale per risolvere il problema e ripartire. Da quel momento in poi dovranno cavarsela da soli.
Se ci si ammala o ci si ferisce si può contare sul medico di gara, il celebre Jean-Yves Chauve, che però non ha il permesso di salire a bordo, tutto si svolge da remoto. Ecco perché la Vendee Globe è in assoluto la regata più estrema a cui uno skipper può partecipare.
Si svolge ogni quattro anni lungo un percorso che è ormai diventato leggenda. A bordo degli Imoca 60, monoscafi che misurano 18,28 metri e possono raggiungere i 30 nodi, si parte da Les Sables-d’Olonne, direzione Oceano Atlantico, fino al capo di Buona Speranza. Da qui si procede verso Est attorno all’Antartide lasciandosi a sinistra Capo Leeuwin e Capo Horn, per poi risalire l’Atlantico fino a tornare al luogo in cui tutto ha avuto inizio. Si compie di fatto una circumnavigazione completa del globo a latitudini tali per cui non sono concessi momenti di distrazione.
Un po’ di storia
La Vendee Globe nasce sulla scia di un’altra storica regata intorno al mondo, la Golden Globe, la madre di tutte le regate transoceaniche, organizzata per la prima volta nel 1968 per volere del Sunday Times. A vent’anni di distanza dal primo Golden Globe, lo skipper Philippe Jeantot, dopo aver collezionato due vittorie nella BOC Challenge (il giro del mondo in solitaria con scali intermedi) decise di dare il via ad una circumnavigazione del globo senza scali, ecco come nasce la Vendee Globe. Nel dicembre del 1989 tredici velisti presero parte alla prima edizione della regata no stop destinata a riscrivere per sempre la storia della navigazione.
Da allora la gara si è svolta con cadenza regolare una volta ogni quattro anni. L’ultima edizione, la nona, ha preso il via l’8 novembre 2021 con trentatré concorrenti ai nastri di partenza, ventisette uomini e sei donne.
Dalla prima edizione ad oggi sono partiti in totale 167 skipper, di questi solo 89 hanno completato la regata. Cinque gli italiani che vi hanno preso parte: Vittorio Malingri (che fu costretto a ritirarsi), Simone Bianchetti, Pasquale de Gregorio, Alessandro Di Benedetto e Giancarlo Pedote.
Edizione 2020/2021
Anche quest’anno i colpi di scena non sono mancati. Tra questi probabilmente il più eclatante è stato l’incidente accaduto a Kevin Escoffier, che per diverse ore ha tenuto tutti con il fiato sospeso facendo temere il peggio. Il 30 novembre lo skipper di PRB, che in quel momento si trovava al largo delle coste del Sudafrica, ha lanciato l’SOS dopo che l’imbarcazione si è letteralmente spezzata in due scendendo violentemente di prua da un’onda. Escoffier ha fatto giusto in tempo a lanciare il mayday e a saltare sulla zattera di salvataggio.
I soccorsi sono partiti immediatamente, la direzione di gara ha chiesto ai tre skipper più vicini, Le Cam, Yannick e Hermann, di deviare la loro rotta per recuperare lo skipper disperso. Il terribile naufragio ha fortunatamente avuto un lieto fine, Le Cam è riuscito a trarre in salvo un Escoffier provato dalla notte trascorsa sulla zattera in balia delle onde, ma incredibilmente illeso. Questo è valso ai tre soccorritori un abbuono di diverse ore che è stato determinante per stilare la classifica finale.
Altro colpo di scena è stato il ritiro di Boris Hermann a sole 81 miglia dall’arrivo, per la collisione con un peschereccio che ha danneggiato irrimediabilmente un foil, un outrigger e il pulpito di prua, rendendo di fatto impossibile la prosecuzione della gara. Così purtroppo è sfumato il sogno di vittoria dello skipper tedesco.
Ma la conclusione della regata è stata a dir poco mozzafiato e ha regalato momenti di pura emozione con un arrivo a tre in volata, mai visto prima nella storia della Vendee Globe. Nonostante il primo a tagliare il traguardo sia stato Charlie Dalin, autore di una regata impeccabile, a stringere tra le mani il prezioso trofeo in bronzo argentato disegnato da Philippe Macheret, dopo 80 giorni di navigazione, è stato Yannick Bestaven, a cui sono state riconosciute 10 ore e 15 minuti di abbuono per il salvataggio di Escoffier. Charlie Dalin si è così dovuto “accontentare” del secondo posto davanti a Louis Burton.
Arrivo a dir poco spettacolare anche perché Bestaven, classe 1972, non era certo tra i favoriti della gara, tutt’altro, dai più era considerato un outsider. Per lui questa era la prima vera partecipazione alla Vendee Globe, dopo che nell’edizione del 2008 aveva disalberato a poche ore dalla partenza, senza riuscire a riparare i danni in un tempo utile a tornare in gara. Ma la Vendee Globe è anche questo, tutto può cambiare in una manciata di secondi, i colpi di scena sono all’ordine del giorno e nulla, ma proprio nulla, è deciso fino alla fine della gara.
A grande sorpresa anche il risultato dell’italiano Giancarlo Pedote, alla sua prima esperienza in questa regata, che con il suo settimo posto all’arrivo, e l’ottavo posto in classifica finale dopo il calcolo delle compensazioni per il salvataggio di Escoffier, si conferma il migliore degli italiani che hanno mai preso parte alla Vendee Globe.
Il futuro è nei foil?
Uno dei maggiori dibattiti che si sono aperti dopo l’arrivo di questa edizione della Vendee Globe ha riguardato i foil. C’è chi li ama, chi li detesta, chi dice che sono il futuro della vela e chi li accusa di aver snaturato questo sport.
Ma cos’è esattamente che divide l’opinione di pubblico e addetti ai lavori riguardo queste appendici?
I foil permettono alle imbarcazioni di raggiungere una velocità nettamente superiore, riducendo l’attrito dell’acqua sullo scafo e consentendo di planare sulle onde, questo è certo, e in condizioni di meteo favorevole, con mare poco mosso e vento medio, possono davvero fare la differenza in termini di velocità raggiunta.
Cosa accade però con il mare corto e con onde ravvicinate tipiche dei nei mari del Sud?
Tutti gli Imoca foiler di ultima generazione, alle prese con queste condizioni meteo, sono stati costretti a rallentare per evitare seri danni strutturali che l’urto con le onde ravvicinate avrebbe potuto provocare.
E proprio qui nasce il legittimo dubbio: foiler si, foiler no.
Dati alla mano, tuttavia, se è vero che molte delle barche che hanno subito danneggiamenti erano Imoca foiler, è anche vero che sono stati proprio gli stessi Imoca foiler a dominare nettamente la regata. Nelle transizioni da un sistema meteo all’altro i foiler sono stati mediamente più rapidi e nell’Atlantico, lungo gli Alisei, non c’è stata storia, le imbarcazioni dotate di foiler hanno fatto registrare in media 2-3 nodi in più di quelle che ne erano sprovviste. Insomma i foiler danno la sicurezza di un vantaggio strategico importante, cosa che non è da sottovalutare durante questo tipo di regate.
Ma rimane la questione sicurezza. Aumentare la superficie delle imbarcazioni con i foil significa aumentare il rischio di collisione con oggetti galleggianti, e urtare qualcosa alla velocità che può raggiungere un Imoca foiler è un rischio non da poco. Inoltre, in una regata lunga come la Vendee, le sollecitazioni alla parte strutturale della barca sono di gran lunga maggiori se si aggiunge anche lo stress portato dai foil.
Allora forse la soluzione sta nel mezzo e potrebbe concretizzarsi in una regolamentazione più accurata. Ad oggi infatti non ci sono regole che vincolino i progettisti: la dimensione dei foil è per ora una libera scelta.
Secondo quanto dichiarato da Antoine Mermod, presidente della classe Imoca, è proprio questa l’ipotesi al vaglio. “Il futuro è nel foil – ha dichiarato Mermod durante un’intervista rilasciata a Le Télégramme – il foil è una rivoluzione che viviamo con piacere. Ma stiamo pensando di limitare le dimensioni delle lamine per trovare il giusto equilibrio tra la potenza e gli effetti del sollevamento.”
È possibile, e molto probabile, che in futuro si arrivi ad una standardizzazione dei foil, così come in passato è avvenuto per le chiglie e per gli alberi (ora one design). In ogni caso, al momento, che piaccia o no, il futuro della Classe Imoca sembra essere assolutamente pro foil.